Vita da freelance

Vogliamo ancora chiamarla vita virtuale?

Vogliamo ancora chiamarla vita virtuale?

Facciamo un passo indietro: la Suprema corte ha deciso che se si parla male di una persona sui social network, anche senza nominarla con nome e cognome, ma indicando dettagli che possano renderla riconoscibile, si diventa passibili di condanna.

E così, il finanziere che si sfoga su Facebook dando del leccaculo raccomandato al collega che l’ha defenestrato, ora rischia di una condanna a tre mesi di reclusione militare.
Non mi interessa soffermarmi su questa notizia: non è il primo e temo, purtroppo, non sarà nemmeno l’ultimo caso di diffamazione su un social network.

Mi piacerebbe invece fare luce sui possibili reati commessi su Facebook, che possono essere di due tipi:

  1. ci sono i reati commessi da coloro che sfruttano Facebook e le sue caratteristiche per scopi illeciti. Ne sono un esempio l’invio di materiale pubblicitario non autorizzato (eh sì, lo SPAM, miei cari!), la raccolta e l’uso di dati sensibili, l’acquisizione di password usate per violare i  sistemi informatici, la ricezione e l’invio di materiale pedopornografico, l’invio di messaggi di propaganda politica (la mia preferita: sì, sono sarcastica), messaggi di incitamento all’odio razziale e via di seguito;
  2. ci sono poi, nel secondo caso, i comportamenti di chi usa Facebook per la funzione per cui è stato creato, ovvero quella di comunicare con un gruppo di persone, ma che facendo ciò, vanno oltre al lecito, sconfinando nel reato penale. Quello più frequente e ne è questo il caso, è quello di diffamazione. Sono considerate tali frasi offensive, la divulgazione di notizie riservate, la pubblicazione di foto compromettenti in grado di innescare ripercussioni negative sul soggetto. Ad esempio: rivelare sulla propria o altrui bacheca che il collega ha una relazione extraconiugale con il capo, caricare foto del proprio compagno nudo o in atteggiamenti privati, creare una pagina chiamata “tutti quelli che detestano il professore di latino della scuola X”.

Ma quando una notizia diventa diffamatoria? Lo è se:

  1. la notizia è comunicata a due o più persone. Sparlare di una persona nella chat privata di Facebook non è diffamazione, ma lo è quando pubblichi uno status sulla tua bacheca pubblica.
  2. il soggetto diffamato è riconoscibile. La notizia deve quindi contenere i dettagli che portino inequivocabilmente al riconoscimento di quella persona. Se scrivi sulla tua bacheca che “le commesse della Benetton di Mantova sono delle oche” rischi un’azione civile volta al risarcimento del danno dell’immagine di Benetton, ma non rischi il reato di diffamazione. Se invece posti “Oggi pomeriggio sono stato al negozio in centro a Mantova di Benetton: mi ha accolto una commessa con un’acne AS-SUR-DA! Che lurida, puzzava ancora di McDonald!” lì sì che sei in pieno reato di diffamazione, perché la commessa, grazie ai dettagli che hai fornito, è chiaramente identificabile (tranquilli, non esiste nessuna commessa affetta da acne ma soprattutto a Mantova non esiste Benetton!).

Alla luce di ciò, faccio una riflessione: serviva una notizia del genere per sensibilizzarci sull’argomento? E’ davvero così difficile, nell’era dei social network, scindere ciò che è bene da ciò che è male?

Un social network è una rete sociale ed è quindi composto da un insieme di individui che interagiscono tra loro attraverso un legame più o meno solido.

La società di cui facciamo parte è la stessa di cui facciamo parte nei social network: non è un’altra società. Molte delle persone con cui sono collegata sui social network sono le stesse che incontro al di fuori di questi; ce ne sono poi tante altre che, per motivi logistici, incontro solo sui social network, ma il mio modo di relazionarmici non cambia. E non dovrebbe cambiare per nessuno.

Il modo in cui ci raccontiamo agli altri sui social network dovrebbe essere lo stesso che usiamo quando viviamo al di fuori di questi, perché io sono la stessa persona che esce con gli amici a fare l’aperitivo ed invia un post su Facebook. Cambiano i mezzi attraverso i quali ci esprimiamo, ma io, la mia educazione ed il mio bagaglio culturale restano immutati.

Questo per dire che ieri mi ha stupito – e lasciato un po’ l’amaro in bocca, lo ammetto – accorgermi di quanto sorpresa avesse suscitato tra i miei contatti questa notizia.

Personalmente, mi è inconcepibile pensare di comportarmi in un modo nella vita reale e trasformarmi in tutt’altro genere di persona quando ho uno schermo di un pc a separarmi dal resto del mondo. Questo per due motivi.

Online = Offline

Hai letto bene, sì. Quella che comunemente chiamiamo vita reale e vita online, offline e online, realtà e virtualità – o come meglio preferisci – non hanno senso di essere distinte. Non sono due facce della stessa medaglia ed è sbagliato, nel 2014 inoltrato, stare qui a sindacare sulle differenze tra l’una e l’altra. Domitilla Ferrari l’ha spiegato molto bene nel suo libro, che ti consiglio di leggere: Due gradi e mezzo di separazione: come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia). Io aggiungo che la vita che noi viviamo online non ha senso d’essere intesa come virtuale, se con tale termine vogliamo intendere la potenzialità, qualcosa che forse esiste o forse no. Noi e soprattutto le nostre azioni esistono online, sono tangibili e reali come quelle che compiamo nella vita di tutti giorni. Quindi smettiamola una buona volta di nasconderci dietro a questo termine diventato ormai vetusto e ridicolo.

Non esiste nessuno schermo

Dobbiamo finirla di credere che tutto ci sia permesso di dire e di fare solo perché, crediamo, esista uno schermo che ci divide dal resto del mondo. Quello schermo esiste, è lo stesso che stai utilizzando ora per leggermi, ma non fa da divisorio, non mi allontana da te, semmai ci avvicina. Voglio dare un nuovo significato allo schermo, che sia quello di un pc, di un tablet o di uno smartphone: non è uno strumento che mi scherma dagli altri, ma un mezzo in grado di portare il mio, il tuo, il nostro valore al servizio degli altri, di chi ne ha bisogno e di chi ne fa richiesta. Il mio schermo è una bellissima finestra aperta sul mondo: un mondo che è reale e tangibile. Un mondo in grado di mettermi in contatto con persone lontane ma che spesso hanno i miei stessi interessi e le mie stesse idee.

Io voglio fare di questo mondo, quello della Rete, un mondo migliore; non farei il lavoro che faccio se non credessi fortemente in queste parole. E non ho bisogno, e non voglio, nascondermi dietro a concetti superati; non voglio pensare di vivere la Rete e di conseguenza i social network, in maniera diversa da come faccio al di fuori di essi, ovvero con superficialità e leggerezza: come se non esistesse responsabilità.

Forse è davvero questo che manca a molte persone che usano (male) i social network: la difficoltà nel riuscire a dare una forma, una sostanza, a quello che ci siamo ostinati a chiamare “vita virtuale”. Questo ha portato molti a pensare che bastasse vivere i social network come un attimo di svago dalla “realtà”, a discapito della responsabilità. Ecco, allora io ora faccio una richiesta: riappropriatevi della vostra responsabilità.

1 commento su “Vogliamo ancora chiamarla vita virtuale?”

  1. Tutto corretto, la riflessione è interessante ed attuale.
    Ci sono due ordini di problemi secondo me che vanno affrontati per completezza:
    1) Siamo sicuri che tutti avessero bene inteso il reato di diffamazione anche nell’offline, al momento di commentare? Ho i miei dubbi. Attualmente c’è molta confusione tra ciò che è “libertà di espressione” e ciò che sconfina nella diffamazione o ingiurie;
    2) I Social network pongono tutti in una prospettiva nuova, e su questo ci sarebbe da fare un trattato. In breve, il fatto di porre le nostre n sfaccettature (l’io conosciuto dalla famiglia, quello conosciuto dai colleghi, dagli amici intimi e via dicendo) si mischiano su un solo canale dove hanno accesso tutti. Questo ha certamente delle implicazioni, sia sulla percezione di questa vita come “virtuale” (e differente da quella “reale”) sia sul comportamento adottato o percepito. Mi fermo qui e lascio questo altro spunto di riflessione, che di cose da dire ce ne sarebbero troppe! 😉

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